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La costituzione della comunione: aspetti fiscali del contratto di messa in comunione.

Un contratto di messa in comunione? Esattamente.

La pratica notarile e la pratica legale pongono gli operatori del diritto ed i cittadini, spesso e volentieri, di fronte alla necessità di risolvere una situazione in cui più soggetti sono comproprietari di uno o più beni ed intendono procedere all’attribuzione ad ognuno di essi di detti singoli beni in piena proprietà; ciò al fine di razionalizzare e concentrare le spese (anche di natura fiscale), oppure semplicemente per dirimere le incomprensioni nella gestione della cosa comune.

Decisamente più raro è invece il caso in cui più soggetti, ognuno pieno proprietario di un bene, intendano modificare la propria situazione giuridica costituendo una comunione di beni, e precisamente, un regime di comproprietà, su uno o più beni, allo scopo di poterne condividere la gestione o l’uso.

Le due fattispecie si concretizzano, giuridicamente, in un atto di divisione, detto anche di scioglimento della comunione, la prima circostanza, ed in un contratto di messa in comunione, la seconda circostanza.

Diversamente dal contratto di divisione, che come anticipato è frequente nella pratica, tanto da essere stato molte volte oggetto di interpretazione dottrinaria e giurisprudenziale, il contratto di messa in comunione, di rara applicazione, solo recentemente ha destato particolare interesse, in seguito alla risposta ad interpello all’Agenzia delle Entrate n. 526 del 13 dicembre 2019.

Eppure, si tratterebbe di un contratto c.d. “tipico”, un contratto espressamente disciplinato dallo stesso codice civile e non di un contratto “atipico” frutto di applicazioni pratiche od interpretazioni dottrinarie o giurisprudenziali (un esempio per tutti, il contratto di affidamento fiduciario).

È pur vero che, contrariamente al contratto di divisione sul quale il legislatore si è soffermato in modo specifico e puntuale, la derivazione codicistica del contratto di messa in comunione è solo accennata: è citato in materia di forma dei contratti (art. 1350 c.c.) specificando che il contratto di messa in comunione avente ad oggetto beni immobili richiede la forma scritta; è altresì citato in materia di trascrizione, considerato che l’art. 2643 c.c. prevede espressamente la trascrizione nei Registri Immobiliari dei negozi costitutivi della comunione.

Ebbene questo in realtà è più che sufficiente per affermare che il contratto di messa in comunione non solo è possibile, ma è anche giuridicamente riconosciuto e, per alcuni aspetti pratici, disciplinato ed inquadrato all’interno dell’ordinamento giuridico.

Il motivo per il quale fino ad oggi poco si è discusso del contratto di messa in comunione è presto detto: non bisogna certamente dimenticare che nella pratica si tende sempre verso la semplificazione e l’accentramento della gestione e del godimento dei beni, ma, accanto a questo aspetto, certamente non è da sottovalutare (ed anzi a volte costituisce l’elemento decisivo per la valutazione e la scelta del tipo di operazione giuridica da porre in essere) l’aspetto economico e fiscale del contratto.

L’impatto delle imposte collegate a qualsiasi negozio giuridico, infatti, è immediato: una parte (generalmente la maggior parte) degli importi versati al notaio in occasione della stipula degli atti è costituita dalle imposte collegate all’atto da stipulare; importi che il notaio (sostituto d’imposta) ha l’obbligo di versare entro un termine brevissimo all’Agenzia delle Entrate.

La novità introdotta dalla risposta 526 dell’Agenzia delle Entrate consiste proprio nell’indicazione della disciplina fiscale da applicare al contratto di messa in comunione.

E’ chiaro che l’interpretazione data dall’Agenzia si riferisce ad un caso ben specifico, ma dai principi giuridici in essa contenuti possono seguire diverse applicazioni.

La risposta dell’Agenzia dirime una questione fiscale sorta in relazione ad un contratto di divisione per il quale si sarebbe applicata la disciplina delle c.d. masse plurime (brevissimamente, senza pretesa di completezza, ma solo per fornire un contesto: ogni atto di acquisto di uno o più beni, in comune tra più soggetti, genera una comunione a sé stante, pertanto si dovrebbe procedere ad un atto di divisione per ciascuna comunione); essa afferma infatti che il contratto di messa in comunione (subito precedente alla divisione) produce effetti analoghi, seppure opposti, a quelli della divisione, e pertanto è soggetto al medesimo trattamento fiscale della divisione, e precisamente quello degli atti di natura dichiarativa e non quello proprio dei trasferimenti immobiliari (decisamente più oneroso). Pertanto, per procedere alle attribuzioni in piena proprietà, non sarà più necessario procedere con più divisioni oppure con il trasferimento delle quote immobiliari, con relativa maggiore imposizione fiscale, ma sarà sufficiente che i comproprietari conferiscano tutte le loro quote delle diverse comunioni in un’unica nuova comunione mediante il contratto di messa in comunione e poi procedere mediante atto di divisione.

Il vantaggio economico è decisamente evidente e ciò non farà altro che dare nuova vita al contratto di messa in comunione a scopo divisorio.

Come anticipato, però, ci si domanda: quali applicazioni potrebbe avere il principio dettato dall’Agenzia delle Entrate? Se è vero, infatti, che ciò che importa ai fini dell’applicazione della disciplina fiscale prevista per gli atti dichiarativi è la circostanza per cui all’esito dell’operazione non si ha un accrescimento patrimoniale e che obiettivo del contratto è la dichiarazione di una situazione di contitolarità, senza alcuna alterazione degli equilibri patrimoniali precedenti, allora si può anche affermare che la medesima disciplina fiscale potrebbe essere applicata anche ai contratti di messa in comunione a scopo di godimento.

Poniamo il caso di tre villette vicine tra loro servite da una strada divisa tra i diversi proprietari, i quali procedono in modo non uniforme alla manutenzione ordinaria e straordinaria della strada; detti proprietari potrebbero decidere di costituire tra loro una comunione sull’intera strada, conferendo ognuno il proprio diritto, in modo da divenire comproprietari, in parti uguali ed indivise, di tutta la strada. Questa circostanza consentirebbe di decidere democraticamente ed uniformemente tutti gli aspetti relativi all’uso ed alla manutenzione della stessa, con evidente vantaggio per tutti e tre i comproprietari.

Ebbene, in tal caso, rappresentando il godimento collettivo del bene la causa del contratto e considerando che la costituzione della comunione è l’effetto principale del contratto e non un effetto secondario di un atto traslativo, allora potrebbe sostenersi che anche in tal caso il contratto di messa in comunione potrebbe essere sottoposto alla stessa imposizione fiscale degli atti di natura dichiarativa.

Ad oggi, alcuna ulteriore indicazione chiara, precisa e di carattere generale è pervenuta da parte dell’Agenzia delle Entrate e dell’ordinamento giuridico, pertanto, per l’applicazione del corretto regime fiscale al caso concreto, occorrerà confrontarsi con i professionisti esperti del settore.

Notaio Letizia Giovine

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